La cucina contadina pavese d’inverno
Nel Pavese, Lomellina e Oltrepò un tempo l’inverno gastronomico veniva inaugurato dal Capodanno, dove era bandito dalla tavola il pollo, animale considerato di cattivo auspicio dato che il suo razzolare per le corti era visto come il respingere la buona fortuna dell’anno nuovo.
Invece per il primo dell’anno veniva servito il maiale di cui si gustava il muso, considerato il simbolo della raccolta e del profitto.
Il mese di gennaio era atteso anche perché il 17, festa di Sant’Antonio, la macellazione del maiale s’interrompeva per ringraziare il santo protettore degli animali.
Allora la macellazione dei suini iniziava dall’11 novembre, giorno dell’estate di San Martino e si chiudeva verso la metà di febbraio.
L’uccisione del maiale tra i contadini poneva fine alla monotonia e il grigiore di una cucina impoverita negli orti e nei frutteti spogli e costituiva un’autentica festa per tutta la famiglia.
Per mangiare il maiale s’iniziava dalla frittura delle frattaglie e dal sangue dell’animale fresco, fritto anch’esso o usato per le fantasiose preparazioni dolci con mandorle e pane.
Si continuava a mangiare la carne suina fino a quando si aveva carne, tranne quella che si doveva insaccare, naturalmente, concludendo con il ragò much, dove non c’erano i tagli già impiegati in altre lavorazioni.
Alla cena del giorno di macellazione s’invitavano parenti e vicini, per quella che chiamata in Lomellina la purcelatà, parola che già nel suono ricorda la sovrabbondanza del cibo, dato che si voleva condividere con gli altri anche un’altra sovrabbondanza, quella della dispensa ritornata piena per tutti i mesi a venire.
Se nella collina la carne si speziava ed era usata per salami di grande formato, coppe e cacciatorini, lasciati appesi nelle cantine fresche e buie, in pietra locale, in pianura, fra marcite e canali, non si potevano che ricoprire i salamini con uno strato di strutto e riporli dentro vasi di terracotta invetriata, le olle, da cui prendevano il nome di salam’d la duja.
Ma in tutte le famiglie era conservato e benedetto lo strutto, l’unico che doveva condire i piatti per l’anno intero e, spesso mescolato alla polenta, poteva salvare dalla fame.
Nel giorno di Sant’Antonio in Oltrepò si mangiava anche la zuppa di castagne allo scopo di favorire il raccolto dei bozzoli del gelso, coltura molto diffusa nella zona collinare e riservata solo alle donne cui garantiva una certa indipendenza economica, dato che potevano nascondere in seno le sementi dei bachi da seta per favorirne l’apertura nel giorno di San Giuseppe, il 19 marzo, quando sulla stufa venivano fritti nello strutto i tradizionali tortelli dolci, più noti come farsòe.