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Storie e tradizioni sui Giorni della Merla

  • Paola Montonati

giorni merla 1Gli ultimi tre giorni di gennaio, il 29, il 30 e il 31, sono da sempre chiamati i Giorni della Merla, forse i giorni più freddi dell'inverno.

Particolarmente diffusa nella Pianura Padana, lungo il Po, la leggenda del merlo, che si dice una volta fosse tutto bianco, per i contadini era uno dei dì d'la marca, cioè i giorni di marca, che indicavano alla comunità la posizione all’interno della Ruota dell’Anno Contadino. 

La leggenda è citata anche da Dante, come riferimento alla storiella che vede l'uccello tratto in inganno dal clima di gennaio.

Nei Giorni della Merla, che possono avere le prime avvisaglie della primavera, il canto del merlo può significare che la bella stagione forse è ancora lontana.

Un proverbio romagnolo infatti dice che Merlo, di marzo non cantare, che il becco ti si potrebbe ghiacciare. Lascia che canti la tordella, che lei non ha paura di nessuno (Mèral, ‘d mêrz no’ cantê’, che e’ bëc u t’ s’ po’ agiazê. Lëssa ch’e’ chénta e’ ragiôn che lo u n’ha pavura d’inciôn) e a Bologna dicono Quand canta al mérel, a san fóra dl’invéren (Quando canta il merlo, siamo fuori dell’inverno). 

Un secondo rifermento è all’espressione dare del merlo a qualcuno, cioè considerarlo uno sprovveduto e un sempliciotto, tanto ingenuo da cantar vittoria prima del tempo.  

Legata ai Giorni della Merla è una tradizione di Formigara, piccolo centro agricolo della pianura cremonese, sulle sponde dell’Adda, dove dal 29 al 31 gennaio in piazza s’intona il Canto della Merla. 

Non si conosce l’origine precisa del rito, ma si dice che fosse celebrato in epoca longobarda o durante il Medioevo, come testimonia Dante nei versi 122-123 del XIII canto del Purgatorio, pronunciate da Sapia, donna senese. 

Legato al ciclo di riti propiziatori d’inizio anno, il rito della Merla è fondamentale per il calendario contadino, poiché doveva assicurare un buon andamento dell’annata agricola e in particolare la riuscita dell’allevamento dei bachi da seta, primo prodotto dell’anno e prima fonte di guadagno per la famiglia contadina.

I cantori si dispongono a semicerchio su un palco allestito contro la porta principale della chiesa, poi vengono distribuiti i ruoli delle voci, si stabilisce chi tra le donne farà la voce solista e chi tra gli uomini farà il basso, si prendono poi accordi sulla tonalità dell’intonazione e infine comincia il canto. 

Alla fine dell’esecuzione di ogni canto si tiene una serie di commenti ad alta voce sulla qualità dell’esibizione canora con riferimenti all’aspetto propiziatorio. 

I canti si susseguono abbastanza rapidamente e durante l’esecuzione dell’ultimo canto alcuni cacciatori sparano delle fucilate a salve contro il cielo. 

La riuscita del canto e delle rappresentazioni drammatiche del rito determinava il valore propiziatorio; se le soliste avessero cantato bene, se le fucilate fossero state potenti e la mascherata finale avesse coinvolto tutti in una grande e festosa baraonda, ci sarebbe stato un raccolto ottimo e abbondante; viceversa si sarebbero tratti auspici sfavorevoli. 

Le prime due sere del triduo dopo i colpi di fucile si devono mangiare le castagne e bere vin brulé, poi l’ultima sera si tiene la mascherata di Martino e Marianna, in cui gli uomini e le donne si mettono gli uni di fronte alle altre e in mezzo c’è una grande porta di legno, come ricordo della porta delle stalle, dove un tempo si chiudevano le ragazze e le donne.

Alla fine del battibecco tra i due cori, la porta si apre e uomini e donne si abbracciano e si baciano, poi si tiene l’accensione del falò della vecchia che suggella la conclusione del rito. 

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