I mulini fluviali sul Ticino
Nel suo capolavoro “Il Mulino del Po” lo scrittore emiliano Riccardo Bacchelli racconta dei mulini fluviali, che nell’Ottocento e Novecento percorrevano il fiume Po, alla ricerca delle granaglie che dovevano essere macinate per ricavare la farina per il pane, usando la corrente dell’acqua dei fiumi.
Ma anche il Ticino ha una sua storia di mulini fluviali, che parte fin dall’alto Medioevo.
Infatti l'affresco del Lanzani nella chiesa di San Teodoro a Pavia mostra sul lato destro del dipinto due barche con una casetta di legno, che risultano abbastanza nascoste, una dalla porta mentre la seconda si intravede appena sulle mura della città, quelle casette erano due mulini natanti.
Non si sa quanti mulini ci fossero in età medioevale, ma la prima menzione di un mulino sul Ticino risale al re Lotario III (1075-1137) che concesse al monastero di San Teodote di Pavia di tenerne uno.
Un altro viene citato in un diploma di Ottone I (912-973) del 972, che permise al monastero di Bobbio la libera navigazione sul Po e sul Ticino, oltre al diritto di tenervi un mulino.
Un cronista della metà del Trecento dopo aver visto che sulla roggia Carona lavoravano undici mulini tutti doppi, cioè a due ruote, non fu però altrettanto preciso per quelli sul Ticino, e si limita a dire “Oltre a quelli che in gran numero si trovano sul Tisino”.
Solo alla metà del Cinquecento una carta indica che in quell’epoca erano 26, ma il cronista chiarisce che “Sopra il Tisino galleggiano navi di varie maniere, e mulini parecchi”.
Infatti in provincia di Pavia non c’erano mulini in terraferma, ma solo mulini di legno galleggianti sull’acqua e perciò detti natanti o a barca.
La loro presenza allora era considerevole, come conferma che ne dovettero rimuovere un discreto numero nel Naviglio Grande quando, alla fine del Duecento, questo venne ampliato per renderlo navigabile, nello stesso periodo in cui il monaco Bonvesin de la Riva (1240-1315) diceva che sui fiumi lombardi sono in attività 900 mulini con oltre tremila ruote, e aggiunse “Che dirò poi del fatto che oltre al numero suddetto di mulini e delle loro ruote, ve ne sono moltissimi altri, di cui non posso calcolare con esattezza l’elevato numero”.
I mugnai pavesi avevano anche l’autonomia corporativa, essendo associati a un paratico retto da cinque consoli, approvato da otto mugnai che rappresentavano quelli del Po, Ticino, Gravellone e Carona.
Il pratico doveva regolare l’attività degli associati, inoltre stabiliva le misure d’ingombro di un mulino, e altre norme disciplinari, che dovevano essere rigorosamente applicate.
Era anche stabilito che il mugnaio non poteva tenere più di un maiale, sei galline e un gallo, poiché un numero maggiore doveva essere allevato a spese di chi portava i grani a macinare.
Ogni mulino fluviale aveva il nome di un santo, come San Giuseppe, San Marco, San Giacomo, Sant’Alessandro, per porsi sotto la divina protezione, che veniva rafforzata anche con scritte dipinte sulle pareti del mulino, come I.N.R.I, o l’invocazione Dio ti salvi.
Come ogni attività produttiva anche i mulini fluviali avevano dei santi patroni, che erano Sant’Antonio Abate (17 gennaio) e Santa Caterina d’Alessandria (25 novembre).
Nel 1902 la Commissione della Navigazione Interna nella Valle del Po annotò nei suoi registri 266 mulini (25 nel pavese, 1 nel piacentino, 13 nel cremonese, 10 nel parmense, 4 nel reggiano, 92 nel mantovano, 30 nel ferrarese, 91 nel rodigino), che funzionarono fino agli anni Quaranta del Novecento e andavano a corrente, a pettine, a schiera, a scalare e a sfalso.
L’ultimo mulino sul Po fu distrutto da un bombardamento aereo il 2 gennaio 1945, potendo fine a una storia lunga due secoli.