Tanto tempo fa: i venditori ambulanti di leccornie a Pavia
Fino alla seconda guerra mondiale, le strade di Pavia erano popolate di venditori ambulanti che, in tutte le stagioni, cercavano di vendere i loro prodotti tipici.
Tra i primi c’erano i venditori di castagnaccio, che arrivò a Pavia grazie all’ iniziativa del toscano Agostino Bianucci, venuto in Lombardia per vendere la patona, cioè una torta di farina di castagne, da tempo immemorabile specialità della sua terra.
Gli affari col castagnaccio prosperarono e il Bianucci aprì una bottega in Strada Nuova, diventata poi un ristorante popolare, in cui si cucinavano pietanze toscane e si offriva il buon vino di Fucecchio.
Il ristorante prosperò anche grazie all’attività della madre di Bianucci, una donna pavese, intelligente e buona cuoca, che aveva allargato la clientela del negozio.
L’iniziativa di Bianucci aveva indotto altri toscani a trasferirsi temporaneamente che, con il grembiule bianco e una grande teglia di rame stagnato, si piazzavano all’uscita delle scuole e degli stabilimenti, a mezzogiorno e nel pomeriggio, per vendere la loro merce, che era largamente consumata.
Venditori di secondo piano erano quelli di seràs, una specie di ricotta di latte cagliato di capra o di pecora, che si vedevano in città una volta all’anno per un mese, disponevano la loro merce in ceste lunghe e strette, di circa 60 centimetri e divisa in quantità corrispondente a due o a tre etti, chiusa in fiscelle di tela bianca, mentre sulla cesta era posto un tovagliolo pure in tela bianca, e il venditore portava sopra l’abito contadinesco, un grembiule di tela azzurro.
Come il venditore di seràs, la venditrice di brasadé proveniva dall’Oltrepò e si piazzava al Ponte Coperto, al dazio di Porta Cavour, in Corso Cairoli, sul viale di San Giovannino, alla Crusàssa, di Porta Garibaldi, a Porta Milano.
Era seduta su un panchetto, con davanti le ceste delle ciambelline, infilate in una cordicina, cotte nei forni casalinghi di Broni, Redavalle, Cicognola, di Borgo Priolo, di Montalto, ma friabili e più o meno saporite, a seconda dell’abbondanza degli ingredienti: burro, strutto, zucchero.
I venditori di maronée non erano pavesi e provenivano in grande maggioranza dal Canton Ticino, tra Bellinzona e il San Gottardo, che prendeva il nome di Valle Lepontina, vendevano castagne bollite e arrosto, nocciole e noci e certe piccole mele verdognole e dolci, frutti della loro terra.
Seduti presso un panchetto, o al riparo di un androne, o sistemati in certi stambugi di certe vecchie case, essi mettevano le loro castagne lessate nella caldaia stagnata o nella piatta padella a fori, con lungo manico per consentire la cottura dei frutti.
Questi venditori erano dislocati nei vari rioni pavesi, c’era il maronaio di Corso Garibaldi, che occupava un locale semibuio della casa ad angolo con via Sant’Ennodio, entrando dal Voltone, taciturno, dal viso olivastro sormontato da un passamontagna di colore indefinibile, la vecchietta, tutta involta in un logoro scialle che al Ponte Vecchio, sull’angolo di sinistra entrando dalla città, che ci restava per tutta la stagione, il lungo e magro maronée di Corso Cavour, piazzato sotto un portone nelle vicinanze della statua del Muto dall’Accia al Collo, quello di Corso Cairoli all’imbocco con via Santa Maria alle Pertiche, il grosso maronée di Borgo Ticino, quasi sull’angolo di via Milazzo e quello di piazzetta del Sale.
All’arrivo della primavera, i maronée lasciavano Pavia, salutavano i bottegai vicini, più con cenni che con la voce e se ne andavano silenziosi, come silenziosi erano venuti, per ritornare l’anno dopo.