Sarto, barbiere e flebotomo nella Lomellina di un tempo
Fino alla fine degli anni Cinquanta, nella Lomellina contadina di un tempo non era raro il caso di una bottega da sarto che, con la caratteristica insegna di tre minuscole arcelle in ottone, dette tundin in dialetto, indicava che lì non solo c’era un buon sarto, ma anche un esperto barbiere e un ottimo flebotomo, che cercava di aiutare le persone con gravi fratture o ferite più o meno gravi.
Entrando nella bottega del sarto, la prima cosa che si vedeva era il ferro da stiro che andava a carbonella e la drapela, il filo che serviva per fare l’anima alle asole delle maniche delle camicie di seta o lino appena finite.
Sul banco del barbiere, che si trovava a pochi passi dal tavolo dove il sarto lavorava, c’erano il rasoio per radere la barba, la Ciaramela affilalame e la preia, che era unta con l’olio per affilare meglio il filo, mentre negli anni Venti del Novecento a Mede era notissima l’espressione Acqua d’udur per definire il profumo prodotto presso la profumeria della famiglia di barbieri Cellario, poi negli anni Ottanta sede della Cappelleria Cecconi.
Altri oggetti legati al mondo del barbiere erano la sipparia, contenuta in una scatola di legno o carta pesta pressata, e i ciapin, i piccoli teli di lenzuola consumate che servivano a pulire il rasoio.
Negli anni Venti e Trenta del Novecento c’erano anche la magnesia, pietra molto tenera che serviva per togliere l’irritazione provocata dal rasoio, la pasta di barbis, per mantenere rigide e appuntite le punte dei baffi e la brillantina solida, usata per tenere sempre belli e freschi i capelli come si usava a quei tempi.
Era inevitabile che, dato tutte le sue conoscenze, spesso il sarto – barbiere diventava il flebotomo, soprattutto in un contesto storico dove la medicina popolare era l’ultima speranza per i malati più o meno gravi.
Tra cavadenti che arrivavano con una carrozza - studio dentistico e l’assistente al seguito per aiutare chi soffriva di carie durante i lunghi pomeriggi estivi, i barbieri – flebotomi facevano storia, spesso imparavano il mestiere dal loro padrone, che comunque li esortava a studiare sui libri di medicina.
Oltre a praticare salassi, operare vari ascessi e a curare le pustole più o meno dolorose che si trovavano sulla pelle dei contadini, i flebotomi conoscevano alla perfezione le vene del corpo e si attenevano all’oroscopo per decidere il momento migliore per praticare l’incisione della vena della piega del gomito per farne fuoriuscire il sangue in eccesso.