Paolo Borsellino Un uomo gentile
In un caldo pomeriggio del luglio 1992, un’autobomba nel centro di Palermo si portava via Paolo Borsellino, grande magistrato e uomo, ma soprattutto miglior amico di Giovanni Falcone, con cui lottò a lungo contro la mafia.
Borsellino era nato il 19 gennaio 1940 a Palermo, nello stesso quartiere di Giovanni Falcone ed era il secondogenito di Diego Borsellino e Maria Pia Lepanto.
Frequentò il liceo classico Giovanni Meli di Palermo, dove divenne il direttore del giornale scolastico, Agorà, per poi iscriversi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo, dove si laureò con il massimo dei voti nel 1962.
Con la morte del padre, Borsellino fu l’unica fonte di sostentamento della famiglia e per questo motivo gli fu concesso l’esonero dal servizio militare.
Nel 1963, con 57 punti, si classificò venticinquesimo al concorso per entrare in magistratura, diventando il più giovane magistrato italiano e cominciò tirocinio come uditore giudiziario, finché non venne assegnato al tribunale di Enna e, in seguito, venne nominato pretore a Mazara del Vallo.
Paolo nel 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di un magistrato del tribunale di Palermo, da cui ebbe tre figli.
Nel 1975, venne trasferito all'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e, quando nel 1980 fu assassinato il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, gli fu assegnata una scorta per lui e la sua famiglia.
La vera svolta per Borsellino avviene nel 1983, quando entrò a far parte del Pool antimafia, un gruppo di giudici istruttori, come Falcone, Di Lello e Guarnotta, che si sarebbe occupato esclusivamente dei reati riguardanti la mafia.
Due anni dopo, Falcone, Borsellino e le rispettive famiglie, dopo l’uccisione degli amici e poliziotti Montana e Cassarà, furono trasferiti per la loro sicurezza al carcere dell’Asinara, dove furono poi costretti a pagare anche un rimborso spese.
Nel febbraio 1986 iniziò il Maxiprocesso, che si concluse a dicembre 1987, con 342 condanne e 19 ergastoli.
In quello stesso anno Paolo chiese di diventare Procuratore della Repubblica di Marsala, allo scopo di decentrare le indagini istruttorie che sarebbero state facilmente a rischio, poiché potevano essere troncare colpendo il magistrato che le seguiva.
Quando Antonino Meli, anziché Falcone, fu nominato a capo del pool, Borsellino capì che il pool si stava per sciogliere e decise di sfogarsi in un’intervista, rischiando un provvedimento disciplinare. Ma tutto finì in una bolla di sapone e alla fine il giudice tornò a Marsala, dove continuò a lavorare con giovani magistrati.
Nel 1991 venne a sapere di essere un bersaglio della mafia, grazie a Vincenzo Calcara, mafioso di Castelvetrano, che era stato incaricato di ucciderlo con un fucile di precisione o un’autobomba ma poi, arrestato, decise di collaborare, diventando un collaboratore di giustizia.
A marzo 1992 Borsellino fu trasferito, su sua richiesta, alla Procura di Palermo, come Procuratore, ma il 23 maggio, Giovanni Falcone, insieme alla moglie e tre uomini della sua scorta, fu ucciso nei pressi di Capaci.
Borsellino denunciò la situazione in un’intervista nella quale parlava dei legami tra la mafia e le industrie del Nord Italia.
Il 19 luglio 1992, il giudice andò a pranzo con la moglie e due dei loro figli, dopodiché andò in via D’Amelio, dove viveva la madre, insieme alla sua scorta, ma sotto l’abitazione si trovava una macchina piena di tritolo.
Come conseguenza l’esplosione uccise Borsellino e cinque agenti di scorta e solo quello che stava parcheggiando l’auto sopravvisse a quella che è ricordata come la strage di via D’Amelio.
I familiari, sdegnati, preferirono esequie private ai funerali di Stato, come segno di sfida nei confronti di chi non era stato in grado di proteggere Borsellino.