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La morte cruenta di Severino Boezio: una storia degna di Halloween

torreboezio1Agli inizi del Medioevo, dopo la caduta in disgrazia delle sedi imperiali a Milano e a Roma, re Teodorico (490-526) elesse Pavia insieme a Verona come capitale del regno ostrogoto d'Italia. Il leggendario sovrano aveva intuito l'importanza strategica e commerciale dell'antica Ticinum, sorta sulla sponda sinistra del celebre fiume da cui prese il nome, prossimo alla confluenza del Po, al centro di una delle più ricche aree agricole della Pianura Padana.

Nonostante gli opportuni restauri promossi dal saggio sovrano, il luogo più prestigioso della città restava comunque il centro: quello stesso nucleo che in seguito sarebbe divenuto cittadella longobarda: quasi una contrada privata, conosciuta col nome di "faramannia" e accessibile solo ai guerrieri di nobile stirpe germanica, idonei all'uso delle armi.

Tutt'attorno alla città si ergeva la cinta fortificata; un cerchio di antiche mura, tardoromane, restaurate con uso di materiale di reimpiego: cippi, miliari e lastre funebri dalla città morta. Si trattava di frammenti di spoglio, rozzamente incastrati tra le mura laterizie e talvolta esibiti a memoria di un passato ricco e glorioso.
I goti riadattarono le mura proprio al fine tutelarsi dagli improvvisi assalti dei bizantini e dei loro cruenti mercenari. Una cinta tanto imponente impressionò molti autori già nel tardo Medioevo, tanto che il pavese Opicino de' Canistris descrisse meravigliato il suo notevole spessore, intervallato da nove grandi porte urbiche.


I quartieri a ridosso delle mura dovevano essere terra di nessuno: un dominio senza padrotorreboezio2ni né leggi, dove ratti e altre creature senza nome scivolano nei rifiuti, tra liquami di scolo usciti dalle fogne romane. Con la complicità della decadenza urbana, la selva di viuzze e mattoni della città antica era diventata un regno d'ombre; territorio di caccia per volpi, furetti e faine: quasi una seconda casa, per le bestie della brughiera. Il lupo stesso costituiva un possibile incontro in città, nelle ore notturne. Al calar della sera, ben pochi avevano il coraggio di uscire dalle loro capanne. Bestie, briganti e spettri dell'immaginario erano in agguato, ovunque.Murata nella cinta esterna si ergeva una torre poligonale, dotata di scabre aperture: la torre delle "Carceri (II-III sec. d. C)". "Desueta" e "strana", come la ricordano gli affascinati osservatori del Rinascimento, presentava enormi statue virili fissate agli spigoli del terzo piano, con braccia alzate sul capo; insieme alle figure panneggiate del quarto livello dovevano alimentare forte senso d'ansia agli occhi del visitatore incauto. Il corpo di fabbrica, demolito nel XVI secolo, presenta affinità con altri torr tardoromane settentrionali come quella di san Secondo d'Asti (nella foto qui a lato) e porta Palatina a Torino.

La torre delle Carceri, che secondo alcune ipotesi sorgeva presso l'agro Calvenzano a nord della torreboezio4città, allora soltanto un paludoso borgo rurale, nido di malaria. La torre sopravvisse alle sue stesse mura fino l584, già demolite nel corso del XVI secolo. Proprio la sua resistenza nei secoli le valse il celebre nome di "Torre di Boezio."

Lo strano baluardo, infatti, fu indicato dalle fonti proprio come luogo di prigionia del grande Manlio Torquato Severino Boezio, (480-524 d.C). Forse il più grande letterato e filosofo di tutto l'alto Medioevo, fece parte della cerchia di politici, letterati e consiglieri latini della cerchia di Teodorico, quasi tutti processati dall'ormai anziano sovrano per presunto alto tradimento. Accusati di simpatizzare per l'imperatore bizantino Giustiniano e perciò sospettati di tramare ai danni del re, gli insigni uomini di Stato latini furono messi dietro le sbarre.

Nel giorno della sua incarcerazione, a Boezio la torre dovette sembrare, nella bruma tetrtorreboezio5a, come un agglomerato di mattoni rossi, anneriti dagli incendi delle guerre sostenute contro gli eruli e i bizantini. Macchie d'umidità, odore di muffa, ragnatele; scale rotte e crepate. Eppure l'edificio pareva vivere di vita propria: il suo respiro, lento e regolare, si muoveva a ritmo con la putrida notte circostante. Il filosofo, forse rinchiuso all'ultimo piano di quella torre che spuntava come un pallido fungo a novembre, in quella silente e macabra plaga rurale dovette sentirsi isolato dal mondo: gufi, civette e altri animali notturni si mandavano richiami continui, allora ritenuti forieri di sventura.
In un anno di prigionia Boezio ebbe tutto il tempo per scrivere la sua più grande opera: il De Consolatione Philosophiae, dove la visione greca della filosofia come consolazione razionale, socratica e stoica, si sposa con i valori allora nascenti del cristianesimo. Boezio, affranto e deluso dal suo re, invocò più volte le muse, nell'irrealizzabile sogno di esser portato via da quel luogo cupo.

Poi, una donna bellissima apparve per davvero: reggeva nella mano destra dei libri, nella sinistra uno scettro. Era la personificazione della Filosofia, come potenza consolatrice delle sventure umane, o forse un angelo? Probabilmente, entrambe le cose. Non a caso, l'importanza di Boezio nella storia della cultura occidentale si lega sicuramente alla funzione di mediatore fra mondo antico e Medioevo cristiano, riconosciutagli in ogni epoca.
Nel 525 d. C i carnefici giustiziarono Boezio. Decapitato, sostengono alcuni. Altri sostengono per strangolamento o per compressione della calotta cranica. Attualmente le sue spoglie riposano nella cripta della chiesa di san Pietro in Ciel d'Oro.
Re Teodorico, morì l'anno seguente. Anche il suo fato, ammantato di mistero, si presta a diverse interpretazioni. Magari, in futuro, le analizzeremo insieme.

Per concludere in bellezza, una leggenda diffusa vorrebbe che, nonostante la sopraggiunta santificazione, lo spettro irrequieto di Boezio si sarebbe aggirato a lungo tra le brume di borgo Calvenzano con la propria testa sotto il braccio.

Per cui, cari amici pavesi: attenzione alle sere nebbiose. Ciclista avvisato, mezzo salvato!

Marco Corrias

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