Pavia e il mistero delle sue cento torri
Pavia città dalle Cento Torri: titolo accostato, nella nostra Penisola, a una miriade di centri storici, primo fra tutti a San Gimignano e perfino a quella Milano medievale che poi le perdette tutte.
Generalmente in età comunale in Italia le torri sorsero in città- stato autogestite, dotate di grande prestigio e benessere economico, tanto che nella stessa Pavia già nel 1000 erano venuti a stabilirvisi piccoli nobili titolari di benefici feudali: i Beccaria, i Bottigella; i Gambarana, i Langosco e i Belcredi, che possedevano rocche e terreni in Oltrepò e Lomellina. Il potere di richiamo della ricca città li portò a procurarvisi casa, inaugurando una politica di compromessi politici, tipici dell’ambito centrosettentrionale d’Italia.
Già nel 1121 l’elezione dei primi consoli, di fatto, ufficializzò il periodo di gestione comunale della città. Fu così che nacque un governo comunale: non una democrazia, bensì un’oligarchia allargata, promossa da piccoli nobili fattivi cittadini. Situazione del tutto diversa da quanto accadeva Oltralpe, dove comuni borghesi (e fondamentalmente, fittizi) furono fondati e sovvenzionati nientemeno che da re e imperatori.
Le torri pavesi sono oggetti inspiegabili, quasi “metafisici”: a differenza di altre città come Bologna, la documentazione sul loro conto è pressoché inesistente.
Il primo autore a parlarcene è d’epoca tarda: Opicino dè Canistris (1330), bizzarro chierico e miniaturista al servizio della corte pontifica avignonese, nel suo “Libellus descriptione Papiae” elencò chiese, monasteri e mercati urbani nella pavia medievale. La ben più celebre testimonianza di Francesco Petrarca, ospite di Ottone Visconti presso la ricca biblioteca del castello (1353-9), ci tramanda una personale impressione di Pavia come città turrita affiorante sulla pianura alluvionale del fiume Ticino. Importante ricostruzione d’epoca, resta la visione a volo d’uccello degli affreschi di Bernardino Lanzani, in San Teodoro (1524).
Ben cinque baluardi, rimasti integri, segnano ancora lo skyline pavese in modo enigmatico e netto. Si ricordino le tre celebri torri di piazza Leonardo da Vinci: la più alta detta del Maino (51 mt.) dal nome dei nobili che a lungo la possedettero, e le due “dell’Università” (38 e 39 mt): molto vicine al limes murario settentrionale, forse esse ebbero il ruolo di vedette sull’aperta campagna.
Rigorosamente a pianta quadrata, le torri sono collocate fuori asse rispetto al reticolo viario della città, e perfino tra loro; prive di aperture per tutta la parte superiore, quasi come obelischi, sono anche le uniche torri, a Pavia, ad avere accesso al livello del terreno. Per tutte le altre si entrava attraverso ingressi posti a diversi metri da terra, tramite scale di legno.
Nell’area sudest si protendono altri due “obelischi” in laterizio, meno celebri ma altrettanto spettacolari: murate tra antichi palazzi, la torre di San Dalmazio (41 mt.) e la Belcreda, la più alta in città, che svetta all’invidiabile altezza di 60 metri. Proprio il dislivello che porta al Ticino fa apparire i baluardi a guardia del fiume meno alti di quanto siano realmente.
L’angusta struttura interna esclude la validità bellica di tutte le torri menzionate, per mancanza di aperture e spazio per viveri e armati: I buchi che le contraddistinguono non sono feritoie, ma solo buche pontaie create dai “muratori” per erigerle. L’altezza eccessiva metteva certamente i proprietari in sicuro, rendendo però impossibile scagliare frecce dall’alto con precisione: il confronto con le torri di cinta, (non più esistenti) basse e larghe, metteva allo scoperto l’inefficienza strutturale delle famose torri.
Le torri pavesi non sono certamente le più alte d’Italia, bensì le più antiche: tutte databili agli albori del XII secolo, con spessori murari arditamente sottili e graduali restringimenti a “riseghe”, tendenti a salire. Questi baluardi, attenendosi a uno slancio nemmeno cercato ma comunque ottenuto, in un’epoca in cui si facevano cose semplici e belle senza volerlo, furono ideate per scelta in tutta la loro disadorna semplicità: talmente diverse dall’estetica deliberatamente ornata e quasi centro italiana di quelle bolognesi.
In assenza di fonti certe, sono queste torri a dar voce ai nobili corazzati e severi che si trasferirono in città in cerca di successo e visibilità: la tendenza feudale a costruire sempre più in alto è una tipica gara per rendersi importanti e potenti agli occhi della cittadinanza.
Altre sopravvivenze, sparse nell'antico tessuto urbano, vanno cercate pazientemente tra i vicoli: ed ecco apparire la torre di casa Lacchini e di S. Margherita in piazza Borromeo, di S. Tomaso, dei Catassi, di casa Parona e Martignoni, della Rocchetta, di piazza Cavagneria, della Zecca e molte altre ormai obliate. In concomitanza con la crisi del libero comune (XIV secolo), molte di esse subirono gravi manomissioni; altre andarono distrutte, finché se ne perse il ricordo. Talune torri sono state individuate come casseforti, formate da un voltone unito alla torre e destinate a sbarrare le vie agli angoli delle strade: è il caso di Torre degli Aquila, di Sant’Ennodio degli Isimbardi.
Purtroppo il simbolo per eccellenza delle virtù cittadine è andato perduto per sempre: la Torre civica, poi campanaria del duomo, eretta nel 1063 e più alta e larga di tutte le altre (73 mt.) al punto da poter ospitare un centinaio di guerrieri sulla sua piattaforma, collassò nel 1989 lasciando dietro di sé dolore per le sue vittime e rimpianti per la mancata ricostruzione.