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La risicoltura italiana tra le due guerre

  • Paola Montonati

riso due guerre 1Giovedì 30 novembre, alle 17, presso il Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria di Pavia, Emmanuele Bianchi parlerà di La risicoltura italiana tra le due guerre: biennio rosso e squadrismo, crisi di mercato e fondazione dell'Ente Nazionale Risi.

All’incontro parteciperanno Giuseppe Cavagna di Gualdana, Presidente di Confagricoltura Pavia, e Cesare Repossi, Presidente della Società Pavese di Storia Patria.

L'intervento è il seguito di quello tenuto in Biblioteca nel 2015, in contemporanea con EXPO, su La risicoltura italiana dall'Unità alla Grande guerra: crisi agraria, questione bracciantile, innovazioni tecnologiche e colturali, collocato nel contesto della mostra Le carte dei cibi. Territorio, prodotti, pranzi di una città agricola e universitaria, ideata dalla Biblioteca Universitaria e dall'Università di Pavia. 

Nei primi del Novecento, la risicoltura si teneva in Piemonte e Lombardia, mentre Emilia e Veneto avevano un ruolo molto più marginale, poi nella Grande Guerra la superficie da 144.000 ettari passò a circa 138.000. 

Nei distretti risicoli di Vercelli, Mortara, Novara e Pavia arrivò un gran numero di lavoratori che comprendevano manodopera migrante, originaria delle zone agricole depresse, spesso al centro di conflitti con la forza lavoro locale che rivendicava l'orario di otto ore in risaia, accusando i migranti di rubare il lavoro. 

Dopo la fine della prima guerra mondiale, nel 1919 i lavoratori agricoli ricevettero in Lomellina l'estensione dell'orario di otto ore anche per i salariati e poco dopo venne concesso l'obbligo per gli agricoltori di assumere una quantità fissa di dipendenti in base alla superficie, obbligo che dopo un anno sarebbe stato applicato ovunque nella pianura padana. 

Nella primavera del 1920, nei distretti risicoli scioperarono anche i mungitori, mentre le guardie rosse armate impedivano a chiunque di lavorare e alla fine gli agricoltori, per non perdere il bestiame, concessero un imponibile più favorevole. 

Con il biennio successivo cessate le importazioni di riso estero tornarono le esportazioni delle eccedenze, ma Spagna, Giappone, Egitto e Stati Uniti erano avversari molto più agguerriti in Europa; il Brasile primeggiava in Sud America, mentre Argentina e Francia, a difesa del prodotto nazionale, introdussero delle tariffe contro il riso italiano.

Il tracollo dei prezzi a Vercelli vide il risone originario passare da una media di 158,08 lire il quintale nel 1925 a 144,34 nel 1926 e il riso lavorato da 238,30 a 213,32.

Nel 1927, la politica del regime, per portare il cambio sterlina-lira a quota novanta, portò il risone e riso a scendere rispettivamente a 103,50 e 151,74 lire e nel settembre 1931 venne fondato l'Ente Nazionale Risi che indicava la quotazione minima del risone e stabiliva, per ogni quintale trasferito, il pagamento a carico del compratore di 14 lire.

Solo nella seconda metà degli anni Trenta, grazie alla parziale riapertura dei mercati e al finanziamento pubblico dell'Ente per compiere operazioni di compravendita e controllare le esportazioni, ci fu una ripresa del mercato risicolo, con il prezzo medio del risone originario di 100 lire il quintale, mentre il rifiorire delle esportazioni rendeva superflua la quota di rimborso.

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